LA VERA GIOIA CRISTIANA

Il sacerdote piemontese Giovanni Barra, morto in concetto di santità, mi scriveva, sugli appunti che avevo preso durante gli esercizi spirituali, queste parole: “Il sacerdozio, appuntamento con la felicità”. Penso che questo si possa estendere a tutta la vita cristiana, in quanto tutto conduce alla gioia. Praticamente, essendo il nostro cammino spirituale un passaggio – Pasqua – dalla vita di peccatori, mediante la Grazia, alla meta finale, che è la partecipazione alla gloria della Trinità in cielo, presenta quaggiù occasioni relativamente poche di gioia, come invece istintivamente desidereremmo in condizione permanente. Ogni essere umano – e quindi anche il cristiano – anela a volersi procurare la felicità su questa terra: l’individuo, la famiglia, la società, e specialmente la gioventù, confondendola col piacere, il successo, i beni materiali, il potere, il benessere totale, troppo spesso usando mezzi illeciti, senza e contro Dio, finendo delusi. Noi stessi cristiani, dicevo, ci troviamo ad essere come i tre apostoli sul Tabor, mentre contemplavano la gloria di Gesù. Volevano fare tre tende per ospitare stabilmente Gesù, Mosè ed Elia; e godere di quell’estasi gioiosa in continuazione. L’evangelista Luca, però, dice che non sapevano quello che dicevano. Infatti il messaggio di quella visione era: preparatevi alla morte prossima di Gesù e al vostro dolore, che non deve far perdere la fede. Fu una grazia dello Spirito Santo che gli apostoli più tardi sarebbero stati “lieti” di subire persecuzioni per amore di Cristo e del Vangelo (“la novità assoluta che dà gioia”); e S. Paolo avrebbe scritto: “sovrabbondo di gioia in Colui che mi dà forza nelle tribolazioni”. Intravvediamo uno scoppio di gioia nell’incontro della Maddalena col Maestro risorto, quando lo riconosce al sentirsi chiamare da lui per nome: “Maria!”; e lei si butta a terra abbracciando i suoi piedi. Ma si sente dire: “non insistere; non sono ancora giunto al Padre mio” (dove ci sarà la gioia che non finirà mai): ora va dai tuoi fratelli ed annuncia…
Anche noi, sempre per istinto, per il nostro modo di pensare “terrestre” tanto ripreso da Gesù nel Vangelo, vorremmo vivere la nostra fede passando di gioia in gioia, aborrendo la croce, la prova, i lunghi periodi di aridità spirituale, le disgrazie e i lutti che ogni cristiano sperimenta alla maniera del maestro, sentendo come un tuffo doloroso al cuore ogni volta che Gesù, nel vangelo, parla di perdere la propria vita per ritrovarla; di prendere la propria croce ogni giorno e di seguirlo, facendo per di più il cireneo, il samaritano per i fratelli ugualmente tribolati. Occorre resistervi nella fede e nell’amore di Dio “nonostante tutti i nonostante”, come diceva il nostro caro Padre Pianzola; e sorridere, pensando che viviamo le Beatitudini evangeliche in quei frangenti dolorosi, perché è allora che si è beati, cioè fortunati, privilegiati, felici.
Personalmente, non mi scandalizzo quando leggo i versi del poeta Giosuè Carducci: “…il cruciaro martire (Gesù e la sua croce)/ che di tristizia l’aer contamina” (lui che voleva vivere una vita pagana, mitica); “Mi sorride l’animo, pensando che presi le mosse della poesia del Crocifisso” (e che morì con l’Eucarestia – nonostante l’assedio dei Massoni)
Oppure non mi turba sapere che il papa S. Pio X si lamentava sconsolato: “Tutto va male, tutto va male”; né leggere le incredibili parole di Padre Pio: “Sei pur crudele, Gesù”, quel frate forse il più grande mistico e il più grande martire della Chiesa; né gli spasimi poco conosciuti dell’allegrissimo S. Filippo Neri; né l’aver saputo da Padre Lombardi, a proposito del Beato Papa Giovanni XXIII, che lo aveva visto piangere.
E’ la notte oscura dello spirito e non risparmia nessuno. Gesù, come sono adorabili le parole del tuo supremo strazio: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Poi viene la sua Risurrezione e verrà pure la nostra, tutta gloria, tutta gioia, nella Sua, nel Regno perfetto.
Nella vita spirituale di ogni cristiano, il buon Dio sembra usare questa tattica: all’inizio inonda di gioia sensibile l’anima, facendole gustare uno stato d’unione intima; poi dirada tali doni, come se volesse svezzare un bambino, con lo scopo di attirare a Sé l’anima, senza che essa si attacchi a queste consolazioni per se stesse ed arrivi piuttosto a vivere di fede, una fede spoglia ma forte, a volte chiedendo l’eroismo.
Lo fa per amore; e qui sta la fede vera: non abbandonarlo, seguendo nelle aridità in quello che è stato chiamato felicemente “l’inesorabile quotidiano” il suo Vangelo, decantando laboriosamente la Fede, la Speranza e la Carità non più accettate teoricamente; ma vissute ed espresse nell’ambiente di vita e di lavoro “in figura Christi”, cioè come un nuovo Cristo (per quanto è possibile), fatti “Gaudium et Spes”, gioia e speranza, nel mondo contemporaneo circostante, testimoni ecclesiali viventi della Costituzione conciliare. Così si ricambia l’amore che Dio ci dona, come da sposi adulti che hanno vissuto l’ “amour passion” e vivono tuttora “l’amour tendresse” – francese senza bisogno di traduzione – un amore che non è propriamente gioia, ma serenità, pace.
Eccoci giunti al nocciolo della questione. La gioia che il cristiano deve godere dentro di sé e mostrare a tutti non è estasi riflessa, non felicità esplosiva; ma serenità interiore ed esteriore. Forse hanno ragione coloro che ritengono i cristiani, cioè la Chiesa, testimoni non invidiabili, chiusi nella pratica della loro religione da cui escono macerati, senza entusiasmi per il loro Dio e per “gli altri”, “carià ad lasmastà” (qui, dopo aver chiesto scusa per l’uso del dialetto, che quasi più nessuno conosce, occorre la traduzione; eccola: carichi di lasciami-stare, nel mio brodo). Come i due discepoli che vanno ad Emmaus.
Un inno liturgico dice: “Lieti gustiamo, sobri/ l’ebbrezza dello Spirito”, sobri, non esaltati o delusi: nella nostra preghiera, nelle Confessioni, nelle nostre Eucarestie, nel servizio di Dio e del prossimo, nella costante e laboriosa conversione.
L’ebbrezza dello Spirito quaggiù è saltuaria, per noi; ma un giorno al termine del nostro terreno pellegrinaggio – di cui il cammino quaresimale è segno – Cristo, che è la nostra Pasqua, ci inonderà di quell’ebbrezza nella Pasqua eterna del suo Regno. Là sarà perfetta la nostra gioia. L’Epilogo del libro dell’Apocalisse dice: “Lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni”; così chi ascolta dica: “Vieni!”. Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!” Amen. Vieni, o Signore Gesù!” (Ap.22, 17,20). Questa è la nostra speranza – certezza, gioia fatta di fede: il popolo di Dio – la Chiesa – e tutta l’umanità redenta del Risorto, si presenteranno come Sposa innamorata all’ardente abbraccio con lo Sposo Gesù.