IL PARLARE IN LINGUE

Veniamo a parlare ora del carisma delle Lingue, o, come si dice più esattamente, della glossolalia. Seguiamo il Laurentin, come abbiamo fatto finora.
“Si dirà: ma Dio ha ben diritto di fare miracoli, anche conferendo doni straordinari a qualcuno. Sembrano infatti straordinari il dono delle lingue e quelle delle guarigioni, ad esempio. Certamente. Nessuno può “vietare a Dio di far miracoli in questo luogo”, come dice un proverbio. Ci sono effettivamente alcuni casi di carismi che escono dall’ordinario.
Ma teniamo presente: in questa materia, ciò che è essenziale non è straordinario, e ciò che è straordinario non è essenziale”.
Questo va bene precisato, specialmente a proposito di due carismi di cui molto si parla.
Uno di essi è la “glossolalia”, espressione d’origine greca che significa “parlare in lingue”. Un dono nato il giorno della Pentecoste, e usato anche a Corinto, dove l’apostolo Paolo ne ha regolato l’esercizio, correggendo certi abusi. Parlare “in lingue” non significa necessariamente parlare in lingue straniere, cioè xenoglossia (da xenos, straniero, e glossa lingua).
Glossolalia: preghiera “in altre lingue”, secondo gli Atti degli Apostoli. Più esattamente si tratta di altro linguaggio, cioè diverso dal parlare ordinario. L’uomo sente spesso il bisogno di andare al di là della banalità quotidiana, nel linguaggio dell’amore, della poesia, della musica. Attraverso i secoli, i cristiani ferventi abbandonano a volte le parole di tutti i giorni, per pregare: pregano a volte col silenzio, col canto, o con quei “gemiti inesprimibili” di cui parla San Paolo, e così via.
Anche questo può essere un linguaggio nuovo, sgorgato da una ispirazione interiore analoga a quella del poeta o del musicista, ma derivante da un dono dello Spirito, che viene in soccorso della fragilità umana per aiutarla a lodare Dio al di là delle forme razionali.

Quando le parole non bastano
Prima del Concilio la preghiera liturgica si faceva in latino, cioè con le parole di una lingua antica, non più usata nella vita ordinaria. E molti fedeli rimpiangono l’abbandono radicale di questo modo di esprimersi, che favoriva un distacco salutare dalla quotidianità e aveva il suo splendore: nel Te Deum, per esempio. Non è stato possibile sostituire col prosaico “abbi pietà” la sonorità greca del Kyrie eleison, così come sono insostituibili parole ebraiche come Amen, Alleluia, Osanna. E dunque non è casuale che il “parlare in lingue” si sia sviluppato nella Chiesa con la sparizione del latino. Si è sentito il bisogno di un altro linguaggio.
Dice ancora il Laurentin: “Nel pentecostalismo accade normalmente di parlare in lingue allorché le parole ordinarie non bastano più. Spesso questo fenomeno si manifesta in forma musicale e collettiva. Uno o più partecipanti cominciano a parlare in lingue (come avviene anche nella preghiera privata) e allora gli altri, via via, fanno altrettanto. Dovrebbe venirne fuori una vasta cacofonia, un gran disordine vocale: invece, ecco formarsi generalmente una armonia, spesso assai bella, come se ci fosse un invisibile direttore d’orchestra a guidare tutti. Sono momenti brevi, qualche volta di pochi secondi; personalmente, credo di non aver mai udito una glossolalia che durasse più di due minuti.
Al Congresso carismatico del maggio 1975 ho ascoltato una manifestazione di questa glossolalia collettiva: una delle più belle, ma soprattutto la più discreta. I carismatici partecipavano alla Messa della domenica dopo Pentecoste, invitati dal Papa in San Pietro. Ed erano stati bene istruiti a evitare ogni eccentricità, per rispetto al Santo Padre e al luogo. Ebbene, cioè non impedì il manifestarsi della glossolalia in due momenti: all’elevazione dell’ostia e a quella del calice; ma con una moderazione che diede luogo soltanto a una sorta di leggero mormorio, di calda vibrazione che animava il silenzio. Una cosa tanto discreta, che molti miei colleghi giornalisti non vi fecero attenzione, sul momento: sentendone poi parlare da me, si sono rammentati di aver percepito qualcosa. Era stato un sussurro, mentre di solito la glossolalia è risonante. E, invece, di essere come altre volte modulata, si manifestava quella volta in San Pietro con una sorta di recto tono, straordinariamente ricco di armonia e di calore umano.
E io mi dicevo: sarebbe bastato che uno solo dei partecipanti sbagliasse tono, sarebbe bastata una nota falsa per trasformare quel sussurro collettivo, quel battito d’ali, in una confusione disarmonica, turbando il raccoglimento che tanto meravigliò quel giorno gli addetti alla basilica. Allora, è un fatto ordinario o straordinario che questo non sia accaduto, nel momento in cui migliaia di carismatici partecipavano in modo improvviso e spontaneo a quella glossolalia? In un certo senso parlerei di fatto ordinario, perché questa armonica, sebbene in ultima analisi sia opera dello Spirito, invisibile direttore d’orchestra, proviene tuttavia dall’umile attenzione di tutti e di ciascuno, e da Dio che anima l’assemblea.