RIDAMMI LA FEDE E TI REGALO LA TOSCA

Giacomo Puccini, l’immortale compositore di Boheme, fu, forse, tra i grandi musicisti il più buono di animo. Dotato di una natura sensibile, era attratto da tutto ciò che è bello e buono, specialmente “al femminile”, in altalena tra picchi di euforia e profonde malinconie. Accanito giocatore di scopone, voleva sempre vincere; e guai se lo facevano perdere; ed era accanito come cacciatore sul lago di Massaciuccoli – anche in “bandita”, per cui si beccò un processo – e anche in tenute di amici, in Toscana e altrove: aveva un equipaggiamento abbondante per tale passione, dagli stivaloni di cuoio al cappello piumato, ed una rastrelliera di “schioppi” tra i più pregiati, compresa una micidiale spingarda: il tutto conservato in bella mostra nella villa di Torre del Lago, dove è sepolto con la moglie Elvira e il figlio Tonio. Aperto ad ogni innovazione, sia nel campo musicale, sia tecnico, fu l’unico musicista ad inizio Novecento a possedere e guidare una automobile (con relativo grave incidente). Ragazzetto, fu organista nella cattedrale della nativa Lucca, come lo fu il padre, e anche i nonni fin dal Settecento: il quanto a fede, la sua era tradizionale e sentimentale, che si affievolì naturalmente col passare degli anni. Uscito dal conservatorio, quel che sarebbe stato chiamato “il fortunato Puccini”, ebbe un’affermazione laboriosa in campo musicale e a Milano patì la fame. Convisse con la donna, che più tardi avrebbe sposato prima al civile e poi con rito religioso, per tutta la vita, Elvira.
Giunto al successo pieno con l’opera musicale “Manon Lescaut” nel 1893, arrivarono per Giacomo Puccini anche la celebrità e il benessere.
Non ne fece mai sfoggio; anzi: un’umiltà e un pudore nativi lo portavano piuttosto all’accettazione interiore degli altri, compositori, coetanei, anche rivali, e la gente comune. La genialità della sua ispirazione – certo inferiore a quella di un Wagner, di un Verdi, di un Rossini, per rimanere in campo lirico – non era sempre istintiva e fluida, per cui aveva bisogno di riflessione e di ripensamenti. Però che delicatezze ci sono nella musica di Puccini! Parlo ovviamente come musicofilo, senza le penne di pavone dei critici: ma non occorre avere una cultura o un discernimento musicali sublimi per amare la musica e il canto pucciniani. Sono alla portata di tutti perché – come si dice – vanno diritti al cuore. E Puccini lo si ama così. Certo ha i suoi limiti, come li ha avuti ogni altro musicista, sia lirico o classico, antico o contemporaneo. Sorvolando perciò su certe punte estreme pucciniane di facile effetto o banali o indulgenti al sensualismo “di amplesso”, mi pare difficile non vibrare al canto dei personaggi (in modo particolarissimo quelli femminili, come Manon, Mimì, Tosca, Butterfly, Liù) del grande Maestro lucchese: li ha amati prima lui fino alla tenerezza, dando loro un’anima che canta nella gioia e nel dolore. Chi ascolta questa musica ne è coinvolto.
Si parlava prima della sua Fede. Gli mancava la fede praticata; senza essere un immorale, si può definirlo un amorale, in quanto facilmente in lui prevaleva l’istinto dell’amore materiale, sentimentalistico, con pochi freni inibitori, tantomeno supportati dalla grazia divina. Era tutto uomo, delicatissimo di animo, generoso, artista, in cui l’intenerimento sessuale andava a briglia sciolta. Non lo coadiuvava certo il mondo in cui viveva a ricostruire una fede solida; eppure Dio non gli era lontano, e lo intravedeva nelle lunghe, profonde e frequenti malinconie cui si abbandonava, nel modo più informale e appunto sentimentale possibile.
Gli fu amico del cuore un sacerdote, don Pietro Panichelli, chiamato “il pretino di Puccini”. Un’amicizia discreta e affettuosa non esclude Dio: lo favorisce anzi implicitamente all’inizio, e poi, continuando, diventa sempre più finemente “ambiente” ideale per ritrovare Dio. Lo ritrovò pienamente Puccini? Il pretino don Pietro lo sperava ardentemente e pregava Dio a tale fine. Anche altrove, in un monastero di clausura, la sorella maggiore di Giacomo pregava per la salvezza del fratello.
Dio ha i suoi tempi e sa attendere, come il padre del figlio prodigo.
Una consolazione il buon Dio l’anticipò a don Pietro, come una sciabolata di luce, quando l’amico Giacomo gli chiese d’impeto: “Ridammi la fede, e io ti regalo Tosca!”, l’opera ultima che aveva trionfato a Roma, pochi mesi prima, il 14 gennaio 1900. Il grande musicista avrebbe poi scritto altre opere teatrali, fino ad arrivare all’ultima, la Turandot, lasciata incompleta per la morte, che lo colse a Bruxelles il 29 novembre 1924 in una clinica d’avanguardia dove si era recato col figlio, pieno di tristi presagi, dolorante e depresso per un cancro alla laringe. Operato da un chirurgo di fama, sopravvisse, per pochi giorni. Rimangono di lui alcuni biglietti strazianti, scritti in matita perchè non poteva più parlare: “Elvira povera donna finita”, un pensiero per la moglie fedele, e: “Sto peggio di ieri – l’inferno in gola – e mi sento svanire – acqua fresca”. Giuseppe Adami, amico e librettista di Puccini, scrive: “Monsignor Micara (Nunzio Apostolico in Belgio, e poi cardinale) è in anticamera. L’ha chiamato Tonio che, ora, curvo sul padre, gli mormora: “C’è monsignore con Orsini-Baroni. Faccio passare?”. Il Maestro fa cenno di sì. Ma entra soltanto il prelato. S’avvicina al letto. Tonio scivola via. Restano solo Puccini, il sacerdote e Dio misericordioso… Poi entra la suora che l’ha sempre assistito e che egli accarezzava dolcemente e chiamava Suor Angelica.
Ogni mattina, essa deponeva in un vaso un mazzo di violette che un’ignota ammiratrice lasciava in portineria e la suora diceva che erano le violette che mandava “Mimì”. E’ quasi l’alba. Suor Angelica non reca tra le mani le viole, ma un piccolo crocifisso che accosta alle labbra del morente.
Giacomo Puccini nacque il 22 dicembre 1858; il giorno che morì (è il dies natalis dei santi e di tutti i figli di Dio): il 29 novembre 1924.
Voglio finire così: grazie Gesù per Puccini. Grazie a te, carissimo Puccini, dolce fratello e amico.